Considerazioni sparse (e irregolari) su un viaggio in Sicilia

Considerazioni sparse, un pizzico scombinate e completamente personali, con sempre la stessa canzone nelle orecchie, un po’ di frasi cicliche nei pensieri, e un viaggio in posti e luoghi visti più e più volte. Sempre gli stessi i posti e i luoghi, diversi sono gli occhi che li guardano e diverse le modalità con cui vengono recepiti. Sicilia, le tre gambe della Trinacria. 

Chi preferisce, salti pure i prossimi tre capoversi.

Le scarpe sbattono sul terreno, tra fili d’erba, terra e tante pietre. Il sudore cade a gocce sempre più calde, sempre più intense. Non era così prima, che sta succedendo adesso? Deve essere una sorta di reazione biochimica balorda all’interno del corpo. Sì, in effetti quando la concentrazione galoppa via allora le cose si complicano e non poco. “Spero che ci siano solo ghiacci, venti freddi e nebbie che nascondo crepacci…”*.

Capita. È il buio dentro, che prova ad uscire, meglio che resti dentro. La confusione prende il sopravvento, sono quelle vertigini che non danno tregua, che fastidio. In viaggio è così. Certo.

In effetti, in quanto tempo può cambiare uno status? Che domanda difficile. Anni, decenni, una frazione di secondo, una vita intera, il tempo di una mezza parola, una frase smozzicata. E via con le vertigini, come se fosse una sensazione di stordimento continua, costante. Va così, eppure qualcosa bisogna fare. “Prendo pasticche contro il tuo sapore…”*. Ma va là, qui nessuno prende nulla. Brioche gelato o un pezzo di pane cunzato sì. O meglio entrambi. Nell’ordine, pane cunzato e poi la brioche gelato. 

Cerchiamo un filo logico, su. Niente cenni storici questa volta, magari giusto un paio per non perdere l’abitudine, niente fatti di cronaca più o meno varia, omicidi eccellenti, depistaggi e collusioni.

Ghiacci e venti freddi da queste parti non ne hanno mai visti, nemmeno l’ombra. Anzi, c’è il solito caldo soffocante. Quando ti avvicini all’aeroporto di Punta Raisi il timore ti attanaglia inevitabile. Dal finestrino vedi solo mare, mare, mare, mare sempre più vicino, poi improvvisamente quando sembra di non essere a più di una decina di metri dalla superficie blu, ecco che compare la pista di atterraggio. Tutto bene, tutto tranquillo. L’impatto del traffico con lo “scorrimento veloce” che porta verso Palermo va assecondato, lo scenario che fa da cornice ad un tratto di territorio fortemente antropizzato (strade, villette, centri commerciali sorti dappertutto) è soltanto l’antipasto di quello che verrà dopo. Inconfondibile il mare, i campi coltivati salgono verso le montagne, montagne di pietra scoscesa e frastagliata, che puntano decise verso l’alto. È la prima botta allo stomaco per chi sente di essere ritornato a casa. 

Più ci si appropinqua a Palermo, più aumentano le automobili e il caos. Il mare si allontana laddove la città è cresciuta sempre di più, dove la natura è stata saccheggiata. Il centro di questa metropoli mediterranea è distante soltanto una manciata di chilometri, bisogna però lasciarsela alle spalle. Si sale di un po’, il Tirreno blu rimane a fare compagnia, si imbocca l’uscita in direzione sud, verso il centro di questa regione talmente bella da strapazzare il cuore. 

Sarà una costante di questo viaggio: le condizioni tra il pessimo e il disastroso in cui versano le arterie stradali, da quelle meno battute alle cosiddette “autostrade”. La manutenzione è poca se non assente, il territorio su cui si poggiano queste fragili lingue di cemento è frastagliato e sconnesso, si muove, si sposta, le piogge sempre più intermittenti e sempre più violente tendono a peggiorare la situazione. Non resta che tenere gli occhi aperti e non dare mai nulla per scontato.

Marineo è la porta d’ingresso e il preludio. Una cittadina che sale e scende attorno alla propria rocca, assomiglia ad un artiglio che sale verso il cielo (no, ancora Buzzati no però). La strada è solo una, non ci si può che legare ad essa, andando verso sud il panorama è diverso rispetto a quello che si ammira tornando verso nord. Alle spalle della cittadina che sale e che scende si appoggia una grande macchia verde, è la Ficuzza. A destra celato dagli alberi c’è un lago, che apre la vista a basse colline gialle di grano mietuto. Su tutto domina la Rocca Busambra, la vetta più alta. Nasce dal bosco e sale irregolare, si estende come una fortezza dalle mura imponenti e inespugnabili, tra strette gole di pietra, vegetazione via via che si fa sempre più rada, la varietà cromatica declina dall’onnipresente giallo dell’estate, al verde degli alberi, al marrone delle rocce, al bianco delle falesie. 

“Così ho una scusa per non venire a cercarti…”*. Figuriamoci in questa distesa multicolore, schiacciata dall’azzurro del cielo e intersecata da stradine di campagna, le trazzere. O le conosci o ti ci perdi. Altro che trovare qualcuno. 

Un tempo la Rocca Busambra è stata un cimitero. Adesso la strada statale a tratti rinnovata vi gira attorno svelta, l’accerchia, il costone roccioso crea quasi una sensazione di oppressione e di immenso fascino. Il panorama cambia di nuovo. Niente più boschi a perdita d’occhio, siamo in terra di latifondo qui, di lotte contadine, di sofferenze e di orgoglio. Accanto al ciglio della strada una volta filava la ferrovia, adesso ne è rimasto il tracciato, è diventato un sentiero da trekking. Corleone è preannunciata da un’infinità di campi coltivati, arati, talvolta puntellati da un incendio (per fortuna) controllato, utile ad estirpare le erbacce, tanta vegetazione che si dirada.

Il viaggio continua, la metà è lontana solo una manciata di chilometri sempre più attorcigliati tra strettoie, dirupi, abbeveratoi e l'addensarsi di immagini che fanno compagnia alle sensazioni. Campofiorito prima, un districarsi difficoltoso sull’asfalto sconnesso poi, compare un bivio, inizia la discesa e là sotto ecco Bisacquino. "E sai dove sono cresciuto, in mezzo al vuoto più assoluto…”*. No, questa volta no. C’è troppa umidità, addirittura un banco di nebbia che sorprende alla sera, una luna luminosa e fosca che impedisce di godere della notte stellata, che se sei fortunato intravedi e intuisci la sterminata diffusione della Via Lattea.

Avanti verso sud. Il Mediterraneo è laggiù, nascosto dietro decide di curve, colline irregolari e tre picchi puntuti. Per arrivarci bisogna attraversare San Carlo, anche qui una volta passava la ferrovia. Due vie perpendicolari, una manciata di case e una sensazione polverosa di far-west. I picchi però aspettano, sotto di essi vi è stato costruito un nucleo abitato, Caltabellotta, dalla storia millenaria. È un piano inclinato di viuzze tra lo stretto e lo strettissimo, di chiese e di piazzette sghembe. Lassù in vetta riposa adagiata su un raro tratto di pianura un edificio dell’XI secolo, sorprendente, la Cattedrale. Ai suo fianchi si espande un panorama circolare, così profondo da spezzare il respiro e confondere gli occhi. Attenzione: la Sicilia è anche questo, meraviglie difficili da descrivere accanto a scelte insensate. Come quella di immergere un monumento di enorme valore storico in un contesto inadatto, tra erbacce, un piazzale trasandato, gli immancabili rifiuti lasciati lì perché si sa, è faticoso portali via. Si può migliorare? Sicuramente sì. 

“E se non mangio te, io preferisco il digiuno…”*. Qui però è davvero difficile riuscirci, la componente gastronomica è senza rivali. La discesa verso la pianura non concede tregua, il sole acceca e nutre infinite distese di alberi di olive e arance, sono dappertutto, ai bordi della strada, si estendono senza fine, rappresentano il motore della piccola economia locale, impegno e onestà.

Dove è casa? Scelta personale, per carità. Un altro viaggio, un’altra meta, altre strade da percorrere, ancora panorami che cambiano, un altro mare accogliente. Autostrada la chiamano, assomiglia di più ad lungo getto di asfalto in mezzo ad un deserto che non è un deserto di fatto ma una sfilza di cittadine e paesi che scorrono sulla destra, il Tirreno sulla sinistra, e niente altro che possa essere necessario per un viaggio. Hanno risparmiato (o meglio speculato) anche sui cartelli di indicazione, sui servizi, sui caselli, sulle corsie. La Sicilia è anche questo, accetti, tiri dritto e lasci che quello che vedi attorno ti inondi la vista. La ferrovia e il mare sono due linee parallele, la spiaggia è chiarissima, sole e caldo. La visuale non è perfetta, in fondo ci sono le Eolie, lì c’era il casello.

Manca poco, Punta Raisi e il volo di (non) ritorno stanno aspettando. C’è ancora una piccola scoperta da fare, un castello aggrappato ad un balcone di roccia che domina un paesino di nome Giuliana. L’accoglienza è quella solita, accoglienza vera. Sembra di esserci già stati, sembra qualcosa di già visto, non lo è. Una volpe osserva guardinga la situazione e fugge via repentina, gli stanzoni e i corridoi della costruzione sono spogli e autentici. La vista che si gode dalla torre toglie per l’ennesima volta il fiato. La valle del fiume Sosio con il suo andamento sbilenco, il mare che sbuca in fondo all’ormai solita e magnifica distesa di colline gialle. Infine una riscoperta, l’Abbazia di Santa Maria del Bosco: l’abbeveratoio è uno specchio dove si riflette il campanile in pietra, un albero è cresciuto e si è fatto spazio sulla superficie del muro di cinta, la vegetazione alta cela spazi che vorresti afferrare, toccare, portare via. Qualcosa resta. 

Basta. Sotto il sole cocente l’aereo aspetta di decollare. “Farò finta che tu non esisti, se non esisti non posso perderti…”*.

(*Voina, Mdma)

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