Gorbacev contro il partito-stato: analisi e memoria di una figura cardine del '900

Alla fine degli anni ’80, in piena sbornia da perestrojka, il capo analista del Kgb Nikolaj Leonov scriveva che “l’Urss assomiglia ad una barretta di cioccolato con le linee di separazione già incise a beneficio dei futuri consumatori”. Previsione perfettamente azzeccata, agevolata dalle scelte politiche di Michail Sergeevic Gorbacev, nato Stavropol il 2 marzo del 1931 e scomparso il 30 agosto 2022? Sì, perlomeno in parte sì; la risposta però andrebbe articolata e dovrebbe prendere in oggetto diversi fattori, interni ed esterni alle vicissitudini dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. 

Tentativo complesso da esaurire in qualche riga.

I meriti di Gorbacev, segretario generale del Pcus dal 1985 alla sua definitiva sparizione, sono innegabili. Si pensi solo per un istante a quanto accaduto dal 1991 nei Balcani, dilaniati da devastanti guerre civili seguite al collasso della Yugoslavia unita. Sarebbe potuto accadere qualcosa di simile anche più a est, con l’aggravante che i possibili attori in lotta avrebbero potuto attingere ad armi ben più devastanti. La transizione degli stati del blocco orientale, Urss compresa, in entità (più o meno) democratiche e affrancate dal ferreo controllo del partito unico, avvenne nella sostanza in modo indolore. Come nulla fece Gorbacev, che in ogni caso comandava diversi milioni di soldati dell’Armata Rossa, per ostacolare il processo di riunificazione tedesco, Anzi, ne fu un convinto sostenitore. Dalla caduta del muro di Berlino in poi si scrisse una delle pagine di storia più importanti del ‘900, sconvolgente, inaspettata e feconda di grandi speranze. Speranze che però - a distanza di tre decenni - possiamo definire definitivamente tramontate, come insegna la recente crisi ucraina.

Coraggio ed errori di valutazione. Questo è il doppio binario da seguire per tentare una valutazione sull’operato di Gorbacev. Uomo di rara intelligenza e umanità, figura cardine nel XX Secolo. Il suo tentativo di riformare e salvare l’Urss naufragò per scelte che, ad oggi, appaiono persino ingenue per quanto involute. Se di errori dobbiamo parlare, furono da lui commessi in piena buona fede. Semplicemente, il suo tentativo arrivò fuori tempo massimo. Ebbe un merito enorme, ovvero quello di traghettare il mondo fuori dalla palude della guerra fredda, con il suo corollario di “mutua distruzione assicurata” e di fine della civiltà. E dopo quattro decenni di confronto muscolare bipolare, con le dita dei leader orientali e occidentali sempre teoricamente puntate sul “pulsante rosso” del lancio dei missili intercontinentali, fu qualcosa di straordinario.

L’Urss era in bancarotta già alla fine degli anni ’60, trascinata nel baratro da un’economia centralizzata in costante perdita e spese militari folli, che a tratti toccarono anche il 30% del Pil. Il gigante sovietico venne salvato dalla polveriera mediorientale. Nel 1973 scoppiò la guerra dello Yom Kippur tra Israele i i suoi acerrimi nemici Egitto e Siria. Il fronte arabo in difficoltà venne sostenuto dalla scelta dei paesi produttori di petrolio riuniti nell’Opec di bloccare le esportazioni di “oro nero” verso gli Stati Uniti (l’alleato numero uno di Israele). Il prezzo del petrolio quadruplicò, innescando una crisi energetica senza precedenti (ricorda qualcosa?). Tutto questo proprio quando in Siberia venivano scoperti immensi giacimenti. Nel breve volgere di dodici anni, dal 1973 al 1985, l’Urss divenne un paese esportatore di petrolio e i grossi introiti in valuta pregiata (leggi dollari) che ne ricavò furono utilizzati per migliorare lo stile di vita interno, per aiutare le asfittiche casse dei paesi satelliti dell’Europa Orientale e - ancora una volta - per rimodernare l’apparato bellico.

La nomenklatura sovietica invecchiava, l’industria incatenata dalle maglie della burocrazia non reggeva il confronto con esigenze produttive sempre più snelle - endemico il deficit dell’Urss nell’utilizzo della tecnologia rispetto agli Usa - i beni di sussistenza scarseggiavano, gli scaffali dei negozi erano vuoti. Mentre il cappio del partito unico strozzava sempre più intellettuali e società, la rincorsa allo scudo stellare di Reagan e l’invasione dell’Afganistan drenavano prezioso budget - Gorbacev venne nominato segretario generale del Pcus. E fece quasi specie vedere un uomo di 54 anni in salute e al lavoro al Cremlino, dopo che i suoi attempati predecessori erano scomparsi nel giro di poco tempo. Breznev morì nel 1982, Andropov nel 1984 e Cernenko (che non era mai uscito dall’ospedale) nel 1985, sembra un racconto di Buzzati.

Il suo mentore, Andropov, l’aveva spinto a studiare e analizzare con attenzione quanto accadeva fuori dai confini dell’impero. Gorbaciov si convinse ben presto che per evitare una definitiva crisi l’Urss andava cambiata. Accelerò l’apertura diplomatica verso gli Usa, con il duplice scopo di aumentare la sicurezza globale grazie ad una drastica riduzione (se non una completa sparizione) delle armi atomiche e di tagliare i fondi all’esercito, risorse che sarebbero poi tornate utili per rivitalizzare l’economia civile (cosa che non accadde, per quanto paradossale le riforme portarono ad un crollo della produzione). In politica interna varò la perestrojka, che altro non era se non una profonda ristrutturazione degli apparati, e la glasnost (trasparenza). Restava ancora una cosa da fare, la più importante, più romantica e più difficile di tutte, introdurre la democrazia in Unione Sovietica. La strada poteva essere solo di rivoluzionare il partito-stato, il Pcus, fino ad arrivare a qualcosa di impensabile fin dall’Ottobre, il pluralismo. La discesa fu frenetica.

Per decenni il Partito Comunista, in Urss come in tutti gli altri paesi del blocco orientale, si era identificato con lo Stato, ne emanava rappresentanti e istituzioni di ogni genere (ministeri, scuole, accademie, forze armate, industria). Nel 1989 si svolsero le prime elezioni libere a Est, per la prima volta i fino ad allora inermi parlamenti delle repubbliche dell’Unione (Russia compresa) si formarono secondo il volere del popolo e non di una élite. Chiedere a Boris El’cin. Nel 1990 a Mosca convivevano quindi due presidenti: quello della vecchia Unione, Gorbacev (nominato dall’apparato) e quello del parlamento della scalpitante repubblica federativa russa, El’Cin (eletto dai cittadini). Non potevano che entrare in conflitto. Le riforme introdotte dal capo di Stato stavano sbranando lo Stato stesso. 

L’introduzione della democrazia diretta indebolì il Pcus e di conseguenza il partito comunista di Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia et similia. In Urss, che è bene ricordarlo era per l’appunto una unione di repubbliche nazionali che sulla carta avevano sempre potuto contare su una piccola libertà d’azione, l’indebolimento del partito-stato spinse la corsa all’indipendenza. Non era quello che si era immaginato Gorbacev. Il seme del nazionalismo stava avvelenando il gigante rosso, l’arrivismo e la spregiudicatezza di certi uomini politici ne aggravarono le conseguenze. 

Il “golpe da birreria” (come da definizione del professor Stephen Kotkin) dell’agosto 1991 fu l’ultimo atto. Con Gorbacev bloccato nella sua dacia in Crimea, a Mosca i congiurati nostalgico-comunisti venivano sconfitti a colpi di comizi improvvisati davanti agli organi di stampa occidentali proprio da El’Cin. Acclamato eroe, egli si oppose anche all’ultimo disperato tentativo di salvare lo Stato, firmare un nuovo trattato di Unione tra le repubbliche che ancora non avevano dichiarato l’indipendenza da Mosca (gli stati baltici, ad esempio, avevano già preso la loro strada). I capi dei parlamenti di Russia, Ucraina e Bielorussia scavalcarono Gorbacev e crearono la Csi, la Comunità degli Stati Indipendenti, che non prendeva alcuna istituzione comune ma soltanto un vago programma di cooperazione. Era la fine del Pcus, dell’Unione Sovietica e delle utopistiche speranze riformatrici di Gorbacev. 

Cosa resta di quell’esperienza? La consapevolezza che mentre un impero armato fino ai denti si andava disgregando, veniva evitata una catastrofe, il paragone con l’ex Yugoslavia non è infatti casuale. E se all’epoca la pace venne preservata, il merito va attribuito senza dubbio a Michail Gorbacev.

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