Stadi, partite, rigori e lacrime. La storia di Italia '90

Un anno e mezzo dopo il sistema sarebbe caduto, tra le macerie di una prima repubblica minata da corruzione e stragi mafiose, e alla fine travolta dalle indagini della magistratura. Ma questa è soprattutto una storia di sport. Costata tantissimi soldi. Per fare bella figura con Italia ’90, il Mondiale da organizzare in casa, lo Stato si è sostanzialmente svenato. Degli oltre 7,3 mila miliardi di lire spesi per la manifestazione, le casse erariali ne hanno versati oltre 6 mila. Cifre pazzesche, che oggi equivarrebbero a 7 o 8 miliardi di euro. Qualcuno però doveva guadagnare, e tanto: i costi delle varie opere lievitarono tra l’80 e il 200% rispetto a quanto preventivato. Vennero realizzati addirittura due hub ferroviari nuovi di zecca, e ben presto abbandonati. Peggio di ogni cosa fu la mancata lungimiranza, sacrificata sull’altare del “tutto e subito”. L’abbuffata di appalti portò infatti alla costruzione di stadi faraonici e inadeguati, nati già vecchi, di insostenibile gestione. Il paradigma perfetto di una nazione retta da un ceto amministrativo sostanzialmente alla frutta. Tempo al tempo però, è un altro discorso; qui si parla di campo, di partite, formazioni, gol e lacrime. Si parla di Italia ’90.




C’è un prologo a questa storia, è datato 1988. L’anno dei Campionati Europei di Germania, al quale (si badi bene) partecipavano soltanto 8 squadre. L’Italia non ha mai avuto feeling con questa manifestazione, almeno non dal 1968, quando la nazionale di Valcareggi (in rampa di lancio verso il 4-3 alla Germania e il secondo posto dietro al Brasile di Pelè al Mondiale del 1970) vinse la ripetizione della finale di Roma con la Jugoslavia, prendendosi così il suo primo (e unico) Europeo. Ma che cammino faticoso quello di Riva, Rivera e compagni. Nella semifinale con l’Unione Sovietica, giocata a Napoli, l’Italia superò il turno grazie al lancio della monetina (sì, il verdetto era affidato a “testa o croce”) dopo lo 0-0 dei tempi supplementari. L’epilogo dei rigori in una gara secca sarebbe stato istituito dalla Fifa soltanto nel 1970. Ricordiamocelo: semifinale, Napoli, rigori. La finalissima dell'Olimpico con la Jugoslavia fu parimenti drammatica: un gol a 10’ dalla fine permise agli azzurri di agguantare l’1-1, nella ripetizione di due giorni dopo l’Italia si impose per 2-0.
Poi solo delusioni, più o meno cocenti. Nell’altro Europeo giocato in casa, quello del 1980 e dello strano regolamento che mandava in finale le prime due classificate di due gironi da quattro squadre, l’Italia di Bearzot non andò oltre il quarto posto, battuta (ai rigori) dalla Cecoslovacchia. Mentre nel 1984 i campioni del mondo in carica, i trionfatori di Spagna ’82, non arrivarono nemmeno alla qualificazione all’edizione vinta dalla Francia di Platini.

Bearzot però la Francia ebbe il (relativo) piacere di conoscerla nella gara degli ottavi di finale del Mondiale di Messico ’86. Troppo forti i transalpini, troppo spremuta una nazionale capace quattro anni prima di un’impresa senza precedenti. Quel 2-0, gol proprio di Platini e raddoppio di Stopyra, spinse il grande c.t. a rassegnare le dimissioni. La Federcalcio pescò bene e scelse per la nazionale maggiore il romagnolo Vicini, allenatore dell’Italia Under 21. Si era appena piazzato secondo all’Europeo di categoria, battuto - rieccoci - ai rigori dalla Spagna (2-1 a Roma, 2-1 per le furie rosse nel ritorno di Valladolid). In squadra aveva Zenga, Maldini, Berti, De Napoli, Donadoni, Giannini, Mancini, Vialli. Il suo compito era molto chiaro: rinnovare e puntare al risultato pieno nel Mondiale di casa del 1990.

L’Italia forse non ne era ancora consapevole, ma stava diventando il baricentro planetario del calcio. Tra il 1988 e il 2004 le squadre della serie A avevano incamerato 5 Champions League, 3 Coppa delle Coppe, 8 Coppa Uefa, 7 Supercoppa Europea e vinto 3 volte l’Intercontinentale. Si erano giocate 5 finali europee “tutte italiane”, Juventus-Fiorentina (Uefa nel 1990), Inter-Roma (Uefa nel 1991), Parma-Juventus (Uefa nel 1995), Inter-Lazio (Uefa nel 1998) e Milan-Juventus (Champions League nel 2003). Altri tempi. Tanto per intenderci, all’albo d’oro della nuova Europa League, istituita nel 2009, non ci siamo ancora iscritti.

Il prologo, l’Europeo di Germania. L’Italia che si presentò all’esordio di Dusseldorf (10 giugno 1988) era una squadra giovane e frizzante. Davanti ai padroni di casa, gli azzurri avrebbero forse meritato di più dell’1-1 scaturito grazie alle reti di Mancini (con tanto di esultanza polemica verso la tribuna stampa) e pareggio immediato dell’interista Brehme su punizione. In un torneo così stringato, due gironi da quattro squadre con le prime due in semifinale, non si poteva già più sbagliare. La scorbutica gara con la Spagna di Butragueno venne illuminata dalla prodezza di Vialli. Tocco di Ancelotti, velo di Altobelli e secca percussione con diagonale sinistro dell’attaccante blucerchiato: 1-0. La corsa azzurra continuò anche con la Danimarca (che avrebbe vinto 4 anni dopo), messa sotto senza affanno grazie alle reti di Altobelli e De Agostini. Lo slancio resse per tutto il primo tempo della semifinale con l’Unione Sovietica. L’Italia giocò 45’ spavaldi, ma calò alla distanza. E i sovietici del leggendario (e ucraino) Lobanovski entrarono in finale, giusto per osservare più da vicino le prodezze dell’Olanda di Gullit e Van Basten, che all’Olympiastadion di Monaco di Baviera segnò il secondo gol più bello della storia del calcio (il primo è quello di Maradona all’Inghilterra al Mondiale ‘86).

Terzi, a parimerito con la Germania. Il risultato soddisfò critica e tifosi, e soprattutto allargò le spalle del commissario tecnico Vicini. Non c’erano discussioni, sarebbe stato lui a guidare la nazionale all’appuntamento più importante della moderna storia (calcistica) nostrana: il Mondiale da giocare in casa. La squadra era sostanzialmente fatta. Zenga in porta, difesa blindata da Baresi e Ferri centrali, Maldini e Bergomi terzini, centrocampo di corsa e fantasia con Berti, Ancelotti, Giannini, Donadoni, De Napoli e De Agostini, davanti Vialli punto fermo inamovibile. Ma rispetto a Euro ’88 in attacco venne operato più di qualche cambiamento: Mancini confermato (del resto la Sampdoria era una squadra da scudetto), al posto di Altobelli ecco i due arieti d’area Carnevale e Serena, poi la 23enne stella della Fiorentina (tra l’altro appena acquistato dalla Juventus per la cifra record di 25 miliardi) Roberto Baggio e la punta Salvatore Schillaci, traghettato dal Messina alla Juve nell’estate del 1989 e autore di 15 gol nella sua stagione di esordio in serie A.

Il Mondiale del ‘90 fu quello più “qualitativo” (diciamo così) della storia? O c’era più talento a Usa ’94 o Francia ’98? Domanda difficile. Di certo la manifestazione iniziata a Milano nel pomeriggio dell’8 giugno poteva contare su un lotto di compagini di altissimo livello, anche se nel complesso il gioco espresso non fu pari alle attese. Le favorite erano tante: la solida Germania di Mattheus, Klinsmann e Brehme, il Brasile di Dunga e Careca, l’Olanda di Gullit e Van Basten, certamente l’Italia padrona di casa, l’Argentina di Maradona campione in carica, tra le possibili pretendenti anche l’Inghilterra di Lineker, la Jugoslavia di Stojkovic e Prosinecki (e dei giovani Savicevic, Boksic e Suker), e perchè no anche la Spagna, l’Urugay e la Colombia di Higuita, il portiere del Nacional Medellin che tanto aveva fatto dannare il Milan di Sacchi nella finale di Coppa Intercontinentale del dicembre ’89.

24 squadre divise in 6 gironi. Italia ’90 si aprì con l’incredibile balzo di Omam-Biyik, che davanti ad un San Siro stracolmo mise al tappeto la detentrice Argentina e decretò fin da subito quella che sarebbe stata la sorpresa del Mondiale. Ovvero il Camerun, guidato in attacco dal 38enne Millà. Da un anno Roger aveva abbandonato il campionato francese per il sicuramente più tranquillo torneo delle Isole Riunione, in pieno Oceano Indiano. Richiamato in nazionale, al Mondiale diede spettacolo partendo quasi sempre dalla panchina. Agli ottavi di finale fece piangere la Colombia con una strepitosa doppietta siglata nel primo tempo supplementare, con tanto di pallone rubato a Higuita sulla trequarti e gol a porta sguarnita. Il Camerun si fermò ai quarti, battuto (di nuovi ai supplementari) dall’Inghilterra di Lineker. E gli azzurri? In sede di sorteggio, il girone capitato all’Italia sembrava tutto sommato facile, almeno sulla carta. Austria, Cecoslovacchia e Usa non potevano impensierire, considerato che tra l’altro al turno successivo passavo le prime due, con tanto di scialuppa di salvataggio delle quattro migliori terze classificate. C’era però bisogno di vincere il girone per conservare la “corsia preferenziale” costituita dal poter giocare davanti ai 73.000 dell’Olimpico di Roma fino ai quarti di finale. Un vantaggio non da poco. Ma per spuntarla il c.t. dovette pescare un jolly. Anzi, due. Il primo tempo della gara d’esordio con l’Austria (9 giugno) fu un costante monologo azzurro, tante occasioni ma nessun gol. Col risultato ancora inchiodato sullo 0-0 a metà ripresa Vicini gettò nella mischia Schillaci al posto di Carnevale. È il 75’. Passano 3’ soltanto: Vialli si libera sulla destra, effettua il cross e in area piccola c’è il palermitano Totò (il più piccolo in campo) che incorna l’1-0. Iniziarono così le “notti magiche”, introdotte dal videoclip di presentazione sulla città di Roma girato da Michelangelo Antonioni (!), accompagnate dalla canzone di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, infuocate dagli occhi increduli e spiritati di Schillaci. Bastò un 1-0 all’Austria per far riversare nelle strade gli italiani festanti. L’entusiasmo calò appena di un po’ dopo il poco brillante successo sugli Usa (gol di Giannini) ma tornò fortissimo al termine della gara con la Cecoslovacchia. Vicini aveva deciso di cambiare. Dopo la scialba prova con gli americani serviva nuova linfa, soprattutto in fase realizzativa. E quindi fuori uno stanco Vialli e Carnevale, dentro Schillaci e Baggio. Ecco la svolta, la “resurrezione” alla Paolo Rossi, l’uomo della provvidenza, questa volta avevamo una coppia della provvidenza. Schillaci segnò prestissimo, dopo appena 9’, buttando dentro di testa (di nuovo) un pallone vagante in area di rigore. La Cecoslovacchia aveva maltratto gli Usa (5-1) e battuto l’Austria con un risultato eguale al nostro (1-0), il pareggio l’avrebbe fatta passare come prima nel girone. Nella ripresa serviva il gol della sicurezza. Lo realizzò Baggio ad un quarto d’ora dal termine: doppio triangolo con Giannini e poi via in serpentina saltando due avversari fino all’area piccola, e appoggio morbido sul primo palo. “Grandissimo gol di Baggio” Bruno Pizzul dixit.

Il primo posto nel girone era cosa fatta, la strada sembrava spianata. Roma, 25 giugno 1990, ottavi di finale, Italia-Uruguay. Tra i sudamericani spiccavano l’estro di Francescoli (passato dall’Olympique Marsiglia al Cagliari) e Fonseca (anche lui preso dal Cagliari quell’estate) e la pericolosità in zona gol degli “italiani” Sosa (Lazio) e Aguilera (Genoa). Nonostante il faticoso terzo posto nel girone dietro Spagna e Belgio, l’Uruguay restava comunque una squadra scorbutica da affrontare. Vicini non ci pensava proprio a cambiare e conservò il posto da titolare per Schillaci e Baggio. Nel primo tempo le emozioni latitavano, l’Uruguay comprensibilmente badava soprattutto a non esporsi alle folate azzurre. Serviva un’invenzione. Nella ripresa il c.t. tolse un mediano (Berti) per inserire un altro attaccante, Serena. Dieci minuti dopo il suo ingresso in campo, Serena toccò un pallone in profondità per Schillaci. Anche Bruno Pizzul si accorse con un pizzico di ritardo di quello che era accaduto: Schillaci, dal limite dell’aria e di prima intenzione, aveva appena scagliato una tremenda bordata verso l’incolpevole portiere sudamericano. Il raddoppio di testa proprio di Serena arrivò come logica conseguenza della superiorità azzurra. Ai quarti di finale - giocati 5 giorni dopo sempre all’Olimpico - la vittima designata era l’Irlanda dello spauracchio Tony Cascarino, sopravvissuta alla lotteria dei rigori dell’ottavo con la Romania. Il timbro è sempre lo stesso, quello di Schillaci, arrivato a quota quattro gol. Palla a Baggio, poi a Giannini e Donadoni, che dal limite dell’aria spostato leggermente sulla destra calcia in porta. Il tiro ribattuto dal portiere irlandese carambola verso Schillaci. Tocco astuto sul palo lungo, gol, 1-0, sono le 21.38 dell’ultimo giorno di giugno del 1990.

Ma come? Ci avete regalato un girone morbido, costruito un’autostrada fino ai quarti di finale, e non avete pensato ad una possibile semifinale a Napoli contro l’Argentina di Maradona, il "re" partenopeo? Che se c’è una partita da evitare, che sia una soltanto, è proprio quella con l’Argentina a Napoli? E chi avrebbe mai potuto immaginare che i campioni del mondo in carica incappassero in un cammino così accidentato. Folgorati dal Camerun all’esordio, qualificati come terzi del girone dietro anche alla Romania ma davanti alla penultima versione dell’Unione Sovietica. La corsa dell’Argentina sembrava destinata a finire agli ottavi di finale, nel derby sudamericano con il Brasile. Invece un gol in contropiede di Caniggia a 10’ dalla fine gelò la “torcida” del Delle Alpi di Torino. Ai quarti c’è la Jugoslavia, che ha sottratto ai decadenti ungheresi il titolo di “brasiliani d’Europa”. Giocano bene, sono forti, ma a differenza del Brasile non vincono mai. Nemmeno questa volta a Firenze. Bilardo, il c.t. del trionfo messicano, voleva Pumpido in porta. Maradona no, e nemmeno la sorte. Pumpido si infortunò e al suo posto, dalla seconda gara in poi, andò Goycochea, portiere con la fama di para rigori. E infatti dopo 120’ sullo 0-0, dei quali 90’ giocati con l’Argentina in superiorità numerica, si arrivò ai calci di rigore. La tensione tradì addirittura Maradona, che sbagliò il terzo tiro dagli undici metri. La Yugoslavia fece peggio. Argentina in semifinale. A Napoli. Con l’Italia.

La pugnalata. Con un solo cambio, Vialli per Baggio (titolare per tre partite di fila) in attacco: inizia così Italia-Argentina, semifinale mondiale, è il 3 luglio, si gioca al San Paolo di Napoli. E inizia pure bene. Dopo 6’ proprio Vialli, che aveva tanto bisogno di fiducia, si ritrova un buon pallone poco dentro l’area. In acrobazia indirizza un pallone velenoso verso Goycochea, che ribatte sui piedi di Schillaci. Il tiro non è proprio un tiro, Totò svirgola la palla con il piede destro ma la colpisce fortunosamente con lo stinco sinistro. Gol. 1-0. E poi un’ora e un quarto di “terra di nessuno”, dove accade poco o niente e tra i tifosi nessuno nemmeno fiatava, in attesa del 90esimo, della finale di Roma, contro Germania o Inghilterra. Ma lo sapevamo già, anzi benvenuti soprattutto i tedeschi: all’Olimpico non ci sarebbe stata storia, la Coppa sarebbe stata nostra. E poi la sberla, una sorta di dramma popolare sportivo. La porta dell’Italia, inviolata dal 14 ottobre del 1989 (1-0 per il Brasile in amichevole, gol su punizione di Andrè Cruz), 10 partite di fila senza subire reti, capitola. Maradona vede Olarticoechea sulla sinistra, il cross è indirizzato verso il centro dell’area di rigore e Caniggia di testa ci arriva prima di tutti. L’Italia si riassetta, non ha senso perdersi d’animo adesso. Ma il conto della rovescia è già iniziato, mancavo 52 minuti (compresi i tempi supplementari) per evitare l’epilogo dei calci di rigore. Perchè a quel punto non ce l’avremmo fatta, l’Italia era lì per costruire gioco e fare gol, non per speculare fino al 120esimo. La partita scivola via dalle mani dell’Italia a forza di attacchi vani e di scelte arbitrali (l’Argentina avrebbe dovuto restare in 10 ben prima del secondo supplementare) tutt’altro che filocasalinghe. Al triplice fischio dell’arbitro francese Vautrot segue l’inevitabile. Dagli undici metri segnano Baresi, Baggio, il friulano De Agostini, il quarto rigore tocca probabilmente al migliore in campo, Donadoni. Goycoechea intuisce la traiettoria a mezza altezza e tuffandosi alla sua sinistra respinge il pallone con i pugni, subito dopo Maradona spiazza Zenga. L’ultimo errore è quello di Serena. E poi giù lacrime, senza sosta.

Il resto è buio, vuoto, un senso di fastidio. Per le statistiche Italia ’90 terminò con la finale dell’Olimpico di Roma (8 luglio), in uno stadio vestito a festa ma orfano dell’invitato più atteso. La Germania aveva appena vinto la sua terza semifinale mondiale consecutiva, questa volta mettendo fuori l’Inghilterra (a Torino), dopo aver estromesso la Francia nel 1982 e nel 1986. Il conto all’Argentina e ad un Maradona furente col pubblico e in lacrime alla premiazione, lo presentò Brehme su rigore (inesistente) a cinque minuti dalla fine. Anche qui l’epilogo era come se fosse già stato scritto. I tedeschi non potevano perdere di nuovo in finale, dopo le batoste di Madrid e Città del Messico. Ai sudamericani la sorte aveva già regalato tanto, un passaggio agli ottavi come terza classificata e due turni superati ai rigori, poteva bastare così.

Ah, sì. L’Italia è arrivata terza, eravamo una bella squadra, ci meritavamo ben altro.

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