1940-1943. Un pugno di morti per il tavolo della pace (prima parte)

È un quadro politico internazionale di grande isteria quello che fa da cornice agli anni ’30, talmente ingarbugliato che soltanto un conflitto (devastante e su larga scala) l’avrebbe potuto risolvere. Non poteva essere diversamente. L’equilibrio dell'Europa voluta dai vincitori della prima guerra mondiale, che al tavolo della pace del 1919-1920 non avevano invitato, umiliandoli, gli sconfitti (Germania su tutti), era giunto al capolinea. La fragilissima economia post-bellica venne poi ulteriormente appesantita dal fardello della grande crisi del 1929, che affossò la produzione e allontanò larghi strati della popolazione da un benessere perlomeno minimo. Le democrazie (Francia, Gran Bretagna e oltre oceano gli Stati Uniti d’America) tiravano il fiato, le potenze militariste crescevano e si liberavano dal debole controllo esercitato dalla Società delle Nazioni (Germania, che non vi era mai nemmeno entrata, Giappone e Italia). Mentre a est si stagliava la sagoma incerta dell’Urss, che tra il 1934 e il 1935 aveva iniziato a lanciare segnali di intesa verso Francia e Stati Uniti. Il primo “fronte popolare” fu aperto dalla guerra civile spagnola (1936), ma non bastò. Anzi, rappresentò forse il più importante segnale rivelatore dell’enorme riluttanza da parte delle democrazie di raccogliere la sfida continentale (e intercontinentale, guardando al Pacifico e al sostanziale immobilismo americano fino al 1941) lanciata dai loro avversari dell’Asse. La crisi non era gestibile. E colpì più duro nei vecchi imperi, quelli spazzati via dal 1918, dove più a fondo si era impiantato il cattivo di seme di Versailles. La Germania nazista riarmò e ben presto intraprese una campagna di espansione militare che non prevedeva mezze misure. Fu l’intransigenza di Hitler, assieme ad un’insana tendenza ad alzare sempre la posta, a spingere un bel numero di governi (Francia, Gran Bretagna, poi gli Usa e alla fine l’Urss) a fare causa comune contro il pericoloso nemico. La posta questa volta era molto più alta rispetto a quella in palio nel 1914. Il fascismo (l’Italia in misura minore e il Giappone con più arroganza) e il nazismo non avevano alternative, con l’allargamento del conflitto e la “pace senza condizioni” richiesta dagli Alleati, la lotta per loro diventava una pura questione di sopravvivenza. Gli Alleati combatterono la seconda guerra mondiale con l’obiettivo di creare un nuovo ordine mondiale. E una volta ottenuta la vittoria, l’idea comune era che non si sarebbe ristabilito lo status quo, nessun ritorno al 1939 o al 1919, la fallimentare esperienza della Società delle Nazioni non andava ripetuta. La strada di una ritrovata concordia internazionale si sarebbe ben presto interrotta tra il 1945 e il 1948. Tutto ciò però era ancora lontano mentre la battaglia infuriava in Europa e sullo sterminato fronte del Pacifico. Sì, nella gigantesca lotta tra le super-potenze dell’epoca - capaci di produrre migliaia e migliaia di tank, aerei da caccia e da bombardamento, blindati e artiglieria mobile, di mettere in linea decine di portaerei, corazzate e mezzi da sbarco anfibi, all’avanguardia della tecnica e dell’industrializzazione - era coinvolta anche l’Italia.


Sia chiaro. La contabilità sugli armamenti è fredda, la seconda guerra mondiale è stata innanzitutto una tragedia umana senza precedenti. Al termine delle ostilità nel 1945 si contarono oltre 50 milioni di morti, la deflagrazione di due ordigni nucleari con l’uccisione istantanea di centinaia di migliaia di civili, decine di milioni gli sfollati, i deportati, i profughi.

Il 10 giugno del 1940 piazza Venezia è gremita. Benito Mussolini, capo del governo ininterrottamente dal 1922, duce del Fascismo, del paese, dell’impero e delle sue forze armate, ha appena dichiarato guerra a Francia e Gran Bretagna. L’Italia era giunta così al bivio del proprio destino e stava per varcare il punto di non ritorno, scommettendo sul cavallo sbagliato (la Germania). All’epoca si poteva immaginare il disastro che da lì nell’arco di tre soli anni avrebbe travolto la nazione? L’escalation militare era iniziata nel 1938, con l’annessione dell’Austria da parte della Germania, annessione che per strana ironia del destino soltanto 4 anni prima, dopo l’omicidio del cancelliere Dolfuss da parte dei filonazisti locali, proprio l’Italia aveva evitato schierando le divisioni al Brennero. I venti di crisi spiravano forte e allo stesso tempo però aprivano spiragli impensabili. Nel 1935 infatti la questione austriaca portò al “fronte di Stresa” tra Italia, Francia e Gran Bretagna, preoccupate per l’aggressività in politica estera di Hitler e (teoricamente) unite contro il riarmo tedesco. L’intesa resse poco. Nello stesso anno l’Italia decise di rimpinguare le proprie colonie iniziando la campagna d’Etiopia, conclusa nel 1936. Ovvero l’anno della definitiva uscita di scena dell’inconsistente Società delle Nazioni. L’intervento accanto ai franchisti nella guerra civile spagnola rimise in linea Italia e Germania. L’accordo prese il nome di “Asse Roma-Berlino”; nel 1937 venne allargato anche a Tokio, considerato che Germania e Giappone avevo sottoscritto un patto in funzione antisovietica.

Nel 1938 quindi Germania e Italia camminavano (quasi) a braccetto. L’“Anschluss” era cosa fatta e scatenare una nuova guerra mondiale per la piccola Austria era impensabile. Le potenze democratiche, la Francia di Daladier e e la Gran Bretagna di Chamberlain, preferirono così preservare la pace e si macchiarono della “vergogna” di Monaco (settembre 1938). Aderendo a quella conferenza non fecero altro che abbandonare al proprio destino un loro alleato, la Cecoslovacchia sarebbe diventata la prossima preda tedesca. Dopo aver trasformato la Boemia in un protettorato, il 15 marzo del 1939 Hitler trascorse una tranquilla notte a Praga e intanto meditava sulle prossime mosse. C’era ancora da risolvere la questione di Danzica. Uno degli ultimi retaggi del Trattato di Versailles del 1919 era pronto a cadere. In estate si arrivò al culmine. Per Hitler il corridoio di Danzica era solo un pretesto, voleva la Polonia per allargare verso est il Reich, e allora si mise al riparo da qualsiasi sorpresa. Nel maggio del 1939 era stato sottoscritto il “Patto d’Acciaio” tra l’Italia reduce dalla campagna d’occupazione dell’Albania e la Germania. La svolta definitiva arrivò però pochi mesi dopo. Il 23 agosto a Mosca i ministri degli esteri di Urss e Germania firmarono il patto Molotov-Ribbentrov, che prevedeva la non aggressione tra i paesi stipulanti e una clausola segreta che delimitava le rispettive zone di influenza nell’est europeo. I sovietici erano preoccupati dall’immobilismo francese e britannico e non volevano essere lasciati soli a reggere l’urto nazista (tra l’altro l’ipotesi di una guerra russo-tedesca non dispiaceva affatto a qualche governo occidentale). Assicuratosi il non intervento dell’Armata Rossa e sventata (almeno per il momento) la tanto pericolosa guerra su due fronti già prodromo di sconfitte in passato, l’1 settembre la Germania passò di nuovo all’azione e lanciò l’esercito in direzione Varsavia. Si era andati troppo oltre, il 3 settembre 1939 Francia e Gran Bretagna non poterono far altro che dichiarare guerra al Terzo Reich. La Polonia venne battuta in tre settimane al costo di 8000 vittime tedesche, e smembrata secondo le clausole segrete stipulate con l’Urss. La miccia innescata vent’anni prima si era completamente consumata. L’Europa disegnata con così poca lungimiranza nel 1919 stava per esplodere, molto a causa di quella “pace punitiva” e confusa che era stata imposta agli sconfitti.

E l’Italia? Il momento di Mussolini non era ancora arrivato ma si faceva sempre più vicino. Del resto il panorama era stato sgombrato da ogni incertezza, si era deciso da che parte stare e non ci sarebbero stato più spazio a cambi di fronte, come nel 1915. Quell’Italia, liberale e trasformista, sparagnina e utilitaristica, non esisteva più. O almeno così si pretendeva che fosse. Pacta sunt servanda.

La Wehrmacht (l’esercito tedesco) non era ancora quella macchina perfetta che nel 1942 sarebbe arrivato fino al lembo estremo del continente, sul Volga, e dopo la campagna di Polonia aveva bisogno di riposare. La “strana guerra” (“drole de guerre”) la chiamavo i francesi - così diversa dalle orribili carneficine del 1914 quando nella sola battaglia della Marna perirono o vennero gravemente feriti 300 mila uomini in una manciata di giorni - finì presto. Il tempo non era amico della Germania. Nella primavera del 1940 Hitler mosse a nord, obiettivi Danimarca prima e Norvegia poi. Prendendo il porto di Narvik, in anticipo sugli inglesi, si garantì così gli approvvigionamenti di ferro svedese e l’accesso al mare aperto. Non sarebbe stato strangolato dal blocco navale come Hildenburg e Luddendorff. L’obiettivo adesso diventava la Francia. La “guerra lampo” (“Blitzkriege”) teorizzata dallo stato maggiore tedesco, che prevedeva l’uso coordinato di mezzi corazzati, fanteria e aviazione e sperimentata con successo in Polonia, non conobbe ostacoli. La Germania violò la neutralità di Belgio e Paesi Bassi e prese alle spalle la Linea Maginot, un complesso sistema di fortificazioni che avrebbe dovuto proteggere la Francia dall’invasione. I tedeschi spinsero l’esercito francese e il corpo di spedizione britannico fino al porto di Dunkerque, dove però commisero l’errore tattico di affidare non al cuneo corazzato dei tank bensì all’aviazione (la Luftwaffe) il compito di liquidare la sacca. Cambiò (relativamente) poco. Il 12 giugno i tedeschi attraversarono la Senna, il 14 giugno 1940 entrarono a Parigi. La guerra, almeno per il momento, era vinta. Il 22 giugno la Francia firmò l’armistizio, a bordo dello stesso vagone ferroviario dove la delegazione tedesca si arrese 22 anni prima, nel mezzo dei boschi di Compiegne. L’onda di reflusso della prima guerra mondiale si era appena abbattuta sull’Europa.

L’Italia. Fin dalla vigilia la guerra italiana fu incerta, sofferta, subordinata al più potente alleato, per certi versi completamente sbagliata. A fronte degli obblighi con i tedeschi, quelli del “Patto d’Acciaio”, allo scoppio delle ostilità (nel settembre del ’39) il paese non poteva dichiararsi neutrale. Il governo mise immediatamente le mani avanti: Mussolini comunicò alla Germania che l’esercito difficilmente sarebbe potuto entrare in azione prima del 1942. Mancava praticamente tutto e venne recapitata alla Germania un richiesta clamorosamente spropositata di materie prime (carbone, acciaio, petrolio, legno e altro ancora). Veniva così varata la politica della “non belligeranza”, che non poteva essere neutralità né - almeno per il momento - guerra vera. L’esercito italiano infatti era debole, antiquato, fiaccato dalle precedenti campagne. Dopo l’intervento in Spagna, il conflitto d’Etiopia e la costituzione dell’Impero, restava ben poco nei magazzini. Il giorno dell’entrata in guerra erano disponibili 74 divisioni, delle quali solo 19 complete di uomini e armi. Nessuna traccia di forze corazzate, quei carri che erano stati decisivi in Polonia e in Francia, l’attrezzatura era di qualità scadente, la potenza di fuoco era forse inferiore a quella del 1915. La marina poteva in qualche modo competere con la Mediterranean Fleet inglese, ma mancava il radar. L’aviazione era incompleta e - su tutto - incombeva la cronica mancanza di carburante. Il paese non era pronto alla guerra mondiale nemmeno dal punto di vista industriale né finanziario.

Il disastro era alle porte e non venne minimamente previsto dalla miope e poco capace classe dirigente dell’epoca. Alla stregua di Hitler, anche Mussolini (accecato da un’anacronistica visione europeocentrica del mondo) sottovalutò l’enorme forza economica e l’immensa capacità di mobilitazione militare di Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Si poteva certamente sperare di concludere la guerra contro Francia e Gran Bretagna prima di un “ravvedimento” sovietico (che fu imposto dai fatti con l’Operazione Barbarossa del 1941). Ma di certo erano minime, se non del tutto assenti, le possibilità che l’America di Roosevelt sarebbe rimasta inerte ad assistere alla fine della democrazia in Europa. Nel 1940 però l’Italia non poteva più aspettare, la politica dell’attendismo veniva superata dagli eventi. Il 18 marzo i dittatori di Italia e Germania si incontrano al Brennero, la trionfale campagna di Francia era infatti imminente. Mussolini ammirava i successi tedeschi e sempre più immaginava vicina la fine delle ostilità.

L’abbaglio, ad onor del vero, fu complessivo. Se per Mussolini le vittorie in Norvegia e Francia erano la “geometrica dimostrazione” della superiorità tedesca e l’Italia non poteva certo “stare alla finestra” mentre l’alleato si prendeva il ricco bottino, ad un certo punto anche lo stato maggiore militare si allineò, finendo (fingendo) per giudicare “buona” l’efficenza di un esercito invece del tutto impreparato. Uno dei personaggi di maggior spicco dell’establishment, il ministro degli esterni Ciano, ovvero colui che aveva messo la firma sotto il “Patto d’Acciaio” con la Germania, stava adesso tessendo trame di tardivo e poco convinto disimpegno nei confronti di Hitler. Ma dalla sua parte non ebbe il re, appiattito (pur senza eccessivo entusiasmo) sulla linea mussoliniana, ovvero quella che voleva accodarsi alla Germania vittoriosa e prevedeva l’intervento ad un certo punto inevitabile. Del resto si stava palesando la possibilità di conquiste territoriali, i Savoia non si sarebbero opposti. Anche l’alta borghesia, quella che deteneva il controllo della maggior parte della grande industria, era rimasta abbagliata dalla “guerra lampo”. E poi c’era l’opinione pubblica, i cittadini, la gente comune. Non mancarono le manifestazioni antibritanniche, il sentire comune era più di curiosità, di attesa e di non troppa convinzione nell’avventura militare. I giornali tornarono a vendere come nel 1915 e rappresentavano il perfetto megafono per il regime e per Mussolini, che dettava puntuale le linee editoriali: la guerra ci sarà, sarà breve e senza rischi per l’Italia.

Il fronte occidentale era caduto, il calcolo utilitaristico era presto fatto e c’era il rischio di non arrivare in tempo, di non sedersi da vincitori al tavolo della pace. Venne così ignorato anche l’ultimo appello proveniente da oltreoceano. Fin dai primi anni ’30 Mussolini e Roosevelt intrattenevano rapporti cordiali (come del resto anche con Churchill) e molteplici erano stati i contatti tra i due capi di stato nel 1940. Il presidente americano aveva prima fatto balenare a Mussolini la possibilità di un’intesa tra Usa e Italia, in quel momento entrambe ancora neutrali. A maggio, mentre Hitler invadeva la Francia, era stato molto meno accondiscendente: l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania avrebbe modificato gli equilibri anche nel Mediterraneo e a quel punto l’America non sarebbe più potuta restare a guardare.

Fine prima parte.

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