Pantani, il Galibier e la doppietta Giro-Tour. Ascesa e cadute del più forte scalatore della storia

Questo pezzo l’avevo pubblicato il 14 febbraio del 2018 sulla pagina Facebook del settimanale sportivo triestino City Sport. E credo si trovi ancora lì da qualche parte, sotto forma di “nota”. Era stato scritto per ricordare un doppio anniversario (chiamiamolo così): il 14 febbraio 2004, il giorno della morte di Marco Pantani, e i vent’anni dal 1998, l’anno magico della doppietta Giro d’Italia-Tour de France. Lo ripropongo qui parola per parola. 

Saranno state le otto di sera, del 14 febbraio di 14 anni fa. La notizia stava già facendo il giro dei tiggì e rimbalzava – tramite sms – anche sui telefoni cellulari. E’ morto Marco Pantani.

In queste righe non si parlerà di doping e nemmeno di inchieste giudiziarie (se non pochissimo). Si parlerà soprattutto delle indescrivibili emozioni che seppe regalare uno sfortunato ragazzo romagnolo. A distanza di 14 anni dalla sua (misteriosa) morte e a 20 esatti da una delle più grandi imprese mai messe a segno da uno sportivo italiano, ovvero vincere Giro d’Italia e Tour de France lo stesso anno: il 1998.

Faceva maledettamente caldo in Italia il 26 luglio in Italia. E faceva pure tanto caldo dalle parti di Grenoble, alle pendici del fronte francese delle Alpi. A vent’anni di distanza non è facile ricordare, ma tra la primavera e l’estate del 1998 le temperature si erano alzate. Erano roventi il pomeriggio del 3 luglio allo stadio Saint Denis di Parigi, mentre Gigi Di Biagio sbatteva contro la traversa il quinto tiro rigore dell’infinito quarto di finale tra Italia e Francia. Erano roventi esattamente un mese prima, a Montecampione, quando Pantani staccava definitivamente Tonkov, ipotecando così la vittoria del suo primo (e unico) Giro d’Italia.


Se qualcuno - il 18 ottobre 1995 - avesse detto a Marco Pantani che da lì a due anni e mezzo avrebbe indossato la maglia rosa, il ciclista romagnolo probabilmente si sarebbe messo a ridere. Anzi, a ridere forse no. Anche perché si trovava in un letto di ospedale. Quel giorno si correva la Milano-Torino, l’ultima gara di una stagione che aveva consacrato Pantani come uno degli scalatori più forti del mondo. Esploso nel 1994, quando appena passato in maglia Carrera si classificò secondo al Giro (dietro a Berzin) e terzo al Tour de France, battuto soltanto dal “re” di Spagna Indurain e da un altro solido corridore russo, Ugrumov. Ma quanto entusiasmo suscitavano le imprese di Marco, sempre pronto ad attaccare in salita, così distante dalla fredda intelligenza ciclista dei russi o dalle prepotenti pedalate di uno dei passisti più forti mai visti, Indurain. Pantani scattava in salita, sempre o quasi sempre, e poco si curava di quello che accadeva alle sue spalle. Nel 1995 saltò il Giro causa una banale, ma sfortunatissima, caduta in allenamento due settimane prima il via della corsa che di più si addiceva alle sue caratteristiche. Poco male. Pantani si presentò al Tour un po’ a corto di condizione, ma quando attaccò sugli arzigogolati tornanti dell’Alpe d’Huez si fece in fretta a capire: il più forte in salita era lui, senza dubbio.

Il 18 ottobre del 1995 nel destino di Marco Pantani fece capolino un’automobile, anzi un jeep ad essere precisi. Si infilò non si sa come nel percorso di gara della Milano-Torino, che Pantani correva cercando di dimenticare la mezza delusione del Mondiale di Colombia, quando arrivò soltanto terzo dietro a Olano (all’unica vittoria di peso della sua incerta carriera) e sempre lui, Indurain, che fece gioco di squadra in favore del connazionale. Pantani era lanciato in discesa, andava forte, all’uscita di una curva riuscì appena ad intravedere la jeep che marciava in senso contrario ai ciclisti. L’impatto fu inevitabile. Finì all’ospedale con una gamba rotta ed una praticamente distrutta. Si rischia l’amputazione, sentenziò un medico. Chissà come l’avrà guardato Pantani. Probabilmente con quella sua espressione aspra tipica dei momenti peggiori della sua carriera, con il volto tirato, gli occhi neri profondissimi e infuriati. La stessa espressione che aveva all’arrivo di un’altra giornata maledetta, esattamente 3 mesi durante il Tour, quando all’arrivo i francesi festeggiavano sul palco delle premiazioni mentre Fabio Casartelli giaceva morto in ospedale, dopo aver sbattuto la testa contro un paracarro nella discesa del Col du Porte D’Aspet. “Mancanza di rispetto” tuonò Pantani ai microfoni dei giornalisti e nei suoi occhi si leggeva distinguibilissima tutta la sua collera. E la sua immensa fragilità.

Pantani si rialzò. Tempestivi impacchi di ghiaccio gli salvarono la gamba, fratturata in più punti, che appena guarita risultò più corta di 2 centimetri rispetto all’altra. Sei mesi dopo tornò in bicicletta, ma chi avrebbe scommesso ancora sullo scalatore romagnolo? Una squadra c’era, la Mercatone Uno di Luciano Pezzi. Ex gregario di Coppi, direttore sportivo di Gimondi al Tour del 1966, l’ultimo vinto da un italiano, credeva ciecamente nelle qualità di Pantani. E costruì un gruppo di uomini a suo completo servizio.

Il 1997 arrivò in fretta e la Mercatone Uno di Marco Pantani si schierò al via del Giro d’Italia con non celate velleità di vittoria finale. Un sogno durato appena otto tappe. Al traguardo di Cava dei Tirreni Pantani arrivò con quasi mezz’ora di ritardo, scortato da tre compagni di squadra. Un gatto gli si era infilato sotto la bici, inevitabile la caduta. Pantani fu costretto al ritiro e mentre Gotti batteva Tonkov e riportava un italiano sul gradino più alto della Corsa Rosa 6 anni dopo Chioccioli, non poteva fare altro che pensare al Tour de France. O meglio alla salita della sua redenzione, l’Alpe d’Huez. Pantani vinse alla grande, forse in maniera meno netta rispetto al 1995, ma con la stessa facilità di pedalata. Il tedesco Ullrich, il “tiranno del 2000” come venne in fretta ribattezzato dalla stampa, l’astro nascente del ciclismo mondiale, rimase sostanzialmente in scia. Pantani concesse il bis due giorni dopo a Morzine e rimontando posizioni su posizioni dopo un deficitario avvio di Tour salì sul terzo gradino del podio di Parigi, dietro al dominatore Ullrich e all’estemporaneo Virenque. La frase sulla “compagnia che non mi piace” la conierà soltanto tre anni dopo, al Tour del 2000, con diretto riferimento a Lance Armstrong. Ma forse, sul palco della premiazione agli Champs Elysees accanto a Ullrich e Virenque, avrà forse pensato qualcosa di simile.

Vent’anni. Vent’anni esatti dal 1998. L’anno dell’apogeo per il ciclismo italiano (e l’inizio del crepuscolo per il pedale tricolore?) e per certi versi l’anno quello più controverso per il movimento mondiale. L’anno di una delle più straordinarie imprese della storia, quelle coronata dal Pirata (sì, era diventato il Pirata Marco Pantani) il 27 luglio – lunedì – al termine della tappa con partenza a Grenoble e arrivo in quota, a Les Deux Alpes.

Pantani non era soltanto diventato il Pirata, bandana in testa e orecchino, ma era soprattutto diventato un vincente. Proprio così. Dopo una lunga rincorsa era riuscito finalmente a vincere il Giro d’Italia. Mettendo in mostra tutte le sue straordinarie qualità di immenso scalatore. L’occhialuto svizzero Zulle l’aveva messo alle corde nella prima parte del Giro. Nella cronometro di Trieste, partenza in piazza Unità, ascesa al Carso su per Strada del Friuli, picchiata verso Sistiana e poi rientro in città attraverso la Costiera, il forte cronoman elvetico inflisse una severa lezione a Pantani, raggiungo e superato proprio in prossimità di Barcola. Oltre 3 minuti di distacco che Pantani (in collaborazione con “Beppeturbo” Guerini) annullò in salita, per poi gettare il guanto di sfida al russo Tonkov. Che si arrese soltanto nella canicola di Montecampione. “Non mi sentivo più le mani e le gambe” dichiarò il russo all’arrivo, staccato da un Pirata che prima dello scatto decisivo di era liberato di bandana e orecchino. Quasi per sentirsi ancora più leggero e andare più forte.

Pirata. Vincente. E finalmente felice. Marco Pantani aveva appena conquistato il suo primo Giro d’Italia e accanto alla sua famiglia e ai suoi amici di sempre, si godeva il meritato riposo a Cesenativo. La carriera, e la vita, di Marco però è sempre stata caratterizzata da gioie il più delle volte fugaci. E la soddisfazione per aver portato a casa la maglia rosa venne spazzata via dalla notizia della morte di Luciano Pezzi, l’anziano patron della Mercatone Uno. Pezzi avrebbe voluto vedere Marco al via del Tour de France. “E’ dovere della maglia rosa” ripeteva spesso.

Pantani lo accontentò. Nonostante una condizione precaria, nonostante tre settimane di inattività dopo la vittoria al Giro, nonostante il percorso del Tour 1998 ben poco si addicesse alle caratteristiche dello scalatore romagnolo. L’11 luglio – il giorno del cronoprologo di Dublino – Pantani arrivò tra gli ultimi. Scrollò le spalle e sorrise. Era lì solo per vincere qualche tappa, o almeno provarci.

Vent’anni fa. La mattina del 27 luglio a Grenoble il caldo terribile di quella lunga estate non era altro che un pallido ricordo. Pioggia, vento e temperature sotto i 10 gradi accompagnarono i corridori alla partenza della tappa numero 15, che avrebbe portato i corridori fino sul traguardo in salita di Les Deux Alpes, non prima di aver scalato il terribile Col du Galibier, 189 chilometri in un clima invernale. Raccontare in poche righe tutti gli avvenimenti del Tour 1998 è impresa praticamente impossibile. La Festina – la squadra dei beniamini francesci Virenque e Brochard – era stata estromessa in blocco, travolta dallo scandalo doping. I corridori dell’olandese Tvm erano finiti in caserma - accusati anche loro di doping sistematico - e si ritirarono. Il Tour era nel caos e ad un certo punto non sembrava remota la possibilità che la corsa potesse venire sospesa. Invece, si proseguì, nonostante tutto. Intanto gli italiani stavano facendo incetta di tappe, due con il velocista Cipollini, una con lo scalatore Massi, che indossò anche la maglia a pois. E una con Pantani, quella dell’arrivo a Plateau de Beille, sui Pirenei. Pantani scattò sull’ultima salita, seminò la maglia gialla Ullrich e vinse alla sua maniera, guadagnando un minuto abbondante sul tedesco leader della classifica generale.

Pantani andava forte soprattutto con il caldo, mentre Ullrich soffriva le temperature alte, mentre si esaltava in condizioni difficili. La mattina del 27 luglio, nel gelo delle Alpi, in classifica generale Pantani era staccato di poco più di 3’ da Ullrich. Che però poteva contare anche sulla lunga e pianeggiante cronometro della penultima tappa, perfetta per le sue caratteristiche, esiziale per uno scalatore agile e leggero come il Pirata.

La corsa si accese all’imbocco del Col du Galibier. Il gruppo della maglia gialla, condotto ovviamente dagli uomini della Deutsche Telekom, non aveva lasciato troppo spazio alla fuga, con dentro Massi, lo spagnolo Escartin, il francese Rinero e l’americano Hamilton. I fuggitivi guadagnarono un paio di minuti di margine appena, con due salite ancora da scalare. A metà Galibier lo scatto del pimpante Leblanc del Team Polti mise in riga il gruppetto dei big. Ullrich sembrava controllare agevolmente, l’americano Julich pareva in forze, e anche il sorprendente Boogerd aveva conservato sufficienti energie per restare davanti. Pantani, protetto dal freddo dalla sua inseparabile bandana, aspettava soltanto il momento più adatto per piazzare l’attacco. “Potrei scattare qui” aveva detto ai suoi compagni di squadra la sera prima a cena. “E speriamo faccia caldo”. Già. Ma per Pantani, che tappa dopo tappa aveva recuperato una condizione probabilmente anche migliore rispetto a quella del Giro vinto due mesi prima, facesse caldo o freddo quel giorno cambiava poco.

Ullrich si ritrovò isolato. Il suo compagno di squadra Riis, colui che nel 1996 infranse il dominio di Indurain fatto di 5 Tour vinti di seguito, proprio non riusciva a tenere il ritmo dei migliori. Senza la preziosa regia del danese, la maglia gialla si mise davanti e accelerò. Pantani non si fece sorprendere e in poche pedalate si riportò sul tedesco. All’arrivo mancavano circa 50 chilometri, 6 o 7 alla vetta del Galibier, e dove adesso c’è una stele che ricorda quel momento, Pantani piazzò uno dei suoi tremendi allunghi. Uno scatto secco, partendo dalle retrovie, mani basse sul manubrio, inarcando la schiena e danzando sui pedali con immensa classe, quasi con leggerezza. “Sembrava accarezzasse i pedali” disse qualche anno dopo Davide Cassani. Ullrich non reagì, Leblanc provò a riportarsi sul Pirata, lo raggiunse, ma resistette al suo ritmo solo per una manciata di metri. A 50 chilometri dall’arrivo, in mezzo ad una bufera di pioggia, Pantani era rimasto solo. La sua velocità forsennata gli permise di rientrare in breve sui vari fuggitivi. Mentre dietro Ullrich andava in difficoltà, davanti Pantani rilanciava l’andatura con una continuità impressionante. Il vantaggio sul gruppo maglia gialla diventava sempre più cospicuo chilometro dopo chilometro. Tre minuti circa allo scollinamento del Galibier, dove Pantanì transitò in testa alla corsa. Al Gpm lo aspettava il secondo direttore sportivo della Mercatone Uno, che gli passò qualcosa di caldo da bere e la mantellina, utile a proteggersi dal freddo e dalla pioggia nella lunga e difficile discesa. Pantani addirittura si fermò. Ma non era né caduto e non aveva nemmeno avuto un problema meccanico. Era semplicemente in perfetto controllo di sé, del suo fisico, della sua mente e della gara. Si fermò, indosso con calma la mantellina e ripartì a tutta velocità, dimostrando non solo di essere lo scalatore più forte di tutti i tempi, ma anche un grande discesista.

Furono 30 chilometri non semplici per il Pirata. Dietro Ullrich in qualche modo si era riorganizzato, davanti Pantani poteva contare soltanto sulla collaborazione dell’altro italiano in fuga, Massi. Nel tratto in pianura che collegava la discesa del Galibier all’imbocco dell’ultima salita, quella di Les Deux Alpes, Ullrich tentò di recuperare qualcosa sfruttando le sue doti di passista, ma senza sortire effetto. Anzi, sperperando energie che gli sarebbero potute tornare utili negli ultimi 9 km di ascesa.

All’imbocco della salita di Les Deux Alpes, impegnativa certo, ma non paragonabile a quelle più dure, Pantani aveva poco più di 3’ di vantaggio su Ullrich. In gergo tecnico, era già “maglia gialla virtuale”. Ma non bastava. Per vincere il Tour in quei 9 chilometri Pantani doveva sferrare il colpo del ko. Non appena la strada tornò in leggera pendenza, il Pirata staccò subito i compagni di fuga (Massi, Jimenez, Rinero e Escartin). Impressionante: sempre alto sui pedali, rilanciava l’andatura quasi con disinvoltura, senza sbavature stilistiche, sfruttando appieno l’ideale rapporto tra peso e potenza del perfetto fisico che la natura gli aveva donato. Pantani era nato per andare in bici, era nato per andare in salita, era nato per andare forte in salita.

Il vantaggio sulla maglia gialla cresceva, si dilatava, diventava incolmabile. Prima 5, dopo 6, poi 7 minuti. Qualcosa di mai visto, per certi versi inconcepibile nel ciclismo moderno, quello delle corse pianificate nei minimi dettagli, delle squadre attrezzatissime, dei corridori quasi telecomandati dalle ammiraglie. Quel giorno di vent’anni fa sembrò – ad un certo punto – di essere tornati ancora più indietro. Al ciclismo eroico delle secondo dopoguerra.

Il finale di questa storia è noto a tutti. Pantani sprintò – evidentemente contro sé stesso – fino sul traguardo di Les Deux Alpes. Superata la linea dell’arrivo, alzò le mani dal manubrio e sospirò forte. Non sorrise. Ullrich sarebbe arrivato soltanto nove minuti dopo (nove!).

Pantanì sorrise, sì, mentre sul palco festeggiava prima il successo di tappa e dopo, con un’espressione tra il felice e l’incredulo di chi non sa come si fa, ma deve comunque farlo, indossò per la prima volta la maglia gialla. Che conservò fino a Parigi. Dove divenne il primo italiano dopo Coppi a vincere Giro e Tour nello stesso anno. E – almeno fino ad oggi – l’ultimo nella storia del ciclismo ad aver messo a segno questa impresa. Il più grande scalatore di tutti i tempi. Vent’anni fa. Maledizione.

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