Messico '86. Quando Maradona entrò nella leggenda del calcio

C’è stato un momento nella carriera di Diego Armando Maradona, un momento particolare, nel corso del quale è diventato indiscutibilmente il numero uno. O il dio del calcio. O scegliete voi l’aggettivo che più si addice.

Qui non c’è spazio per le polemiche, nemmeno per considerazioni extra-calcistiche, morali, sui comportamenti personali. Questo è semplicemente un racconto, dell’avvenimento sportivo più importante del 1986, il Mondiale di calcio in Messico, e di come in quei trenta giorni Maradona sia entrato nella leggenda.

L’Argentina, campione del mondo 1978, frastornata dall’Italia di Bearzot e travolta dal Brasile di Zico e Falcao nel 1982, arrivò al Mondiale ’86 senza godere dei favori del pronostico. In panchina c’era Carlos Biliardo, un tecnico certamente più pragmatico del supponente Cesar Luis Menotti, che alla vigilia del match con l’Italia del Sarria di Barcellona (29 giugno 1982) pensò bene di rilasciare una dichiarazione in cui definiva “arretrato” il calcio italiano. Le reti di Tardelli e Cabrini, con due fulminati proiezioni offensive (oggi si direbbe ripartenze, ma va bene così), e la ruvida marcatura di Gentile sul 21enne Maradona, misero a tappeto tutte le certezze dei campioni in carica. L’Argentina finì definitivamente al tappeto tre giorni dopo, stesa dal Brasile (un 3-1 molto stretto per gli straripanti verdeoro), come finì al tappeto Menotti, esonerato e ben presto ingaggiato dal Barcellona.

 

Si è molto dibattuto sulla reale consistenza, Maradona a parte, della nazionale argentina al Mondiale del 1986. E in effetti se nel 1982 Menotti poteva schierare, accanto al giovane Diego, gente come Passarella, Ardiles, Kempes, Gallego, Diaz, la rosa a disposizione di Bilardo quattro anni dopo era certamente di minore qualità. Spiccava senza dubbio Valdano, uno che segnava tanto nel Real Madrid e che infatti fece benissimo. “Sarà capocannoniere” sentenziò Maradona prima di partire per il Messico, e non ci andò tanto lontano. Buona affidabilità era garantita anche dal centrocampista del Nantes Burruchaga (il match-winner della finalissima), ma per puntellare la fase offensiva Bilardo dovette affidarsi anche al leccese Pedro Pasculli, impiegato nell’undici di partenza in un paio di occasioni. Ah sì. In quell’Argentina era titolare inamovibile un certo Claudio Borghi, un talento nascosto (molto) e mai sbocciato, che però fece in tempo a fare “innamorare” di lui il presidente del Milan Berlusconi, che l’avrebbe voluto al posto di Frank Rijkaard.

Però quell’Argentina aveva Maradona. Nel 1982 era stato acquistato dal Barcellona per la cifra record di 15 miliardi. Nella sua avventura spagnola Maradona ritrovò l’allenatore Menotti, ma non ebbe grande fortuna. Nel 1983 subì un grave infortunio: il difensore dell’Athletic Bilbao Goikoetxea lo colpì duro da dietro, un intervento “killer” che gli mandò in frantumi la caviglia sinistra. A Diego servì un anno per recuperare da quel terribile incidente, tornò in campo nella finale di Coppa del Re persa proprio con l’Atletico Bilbao, e dopo aver incassato falli a ripetizione innescò una furibonda rissa. La sua esperienza al Barcellona si concluse lì e nell’estate del 1984 venne acquistato dal Napoli per poco meno di 14 miliardi di lire.

L’amore fu immediato, fin dal giorno della sua presentazione allo stadio San Paolo, gremito all’inverosimile. L’infortunio era finalmente alle spalle e in un paio di stagioni Maradona cambiò il volto del Napoli, che da tempo naviga a ridosso della zona retrocessione. Ottavo posto nella stagione 1984-1985, terzo posto nella stagione 1985-1986, con 11 gol segnati e quella incredibile punizione di Napoli-Juventus 1-0, battuta di seconda da dentro l’area di rigore e depositata sotto l’incrocio dei pali, un gesto tecnico mai visto.

Maradona si presentò al Mondiale del 1986 in perfette condizioni di forma. Era il capitano e il leader riconosciuto della squadra, non era mai stato meglio sotto il profilo fisico, e non è poco per uno che non aveva certo la struttura (e i comportamenti) da grande atleta. Correva, scattava, sgusciava in ogni zona del campo, arretrava per ricevere il pallone e per smistarlo verso i compagni. Per quanto riguarda poi il suo dribbling, in corsa o da fermo, e per la sua capacità di accarezzare la sfera col sinistro, beh, non serve alcuna descrizione.

Il sorteggio del Mondiale 1986 aveva concesso all’Argentina il gruppo A, quello dell’Italia campione in carica, dalla pericolosa Bulgaria e della Corea del Sud. Il 2 giugno all’Azteca di Città del Messico l’Argentina esordì battendo per 3-1 i coreani, con doppietta di Valdano e rete di Ruggeri. Nella seconda partita del Mondiale, il 5 giugno a Puebla, Maradona punì la nazionale italiana. Gli argentini si ritrovarono sotto quasi subito grazie ad un rigore trasformato da Altobelli, il pareggio arrivò al 34’ del primo tempo. Una triangolazione tra Valdano e Maradona portò il numero 10 a battere a rete da posizione defilata: un tocco in diagonale, beffardo e preciso quel tanto che bastava per spedirlo sul palo lungo, mente in porta Giovanni Galli non poteva far altro che accompagnare con lo sguardo la palla fino in fondo alla rete. La gara terminò 1-1, risultato utile ad entrambe le squadre, che però non risparmiò le critiche al portiere azzurro. Un buffetto quello rifilato da Maradona all’Italia, nulla a che vedere che l’enorme delusione della semifinale mondiale del 1990.

L’Argentina cresceva partita dopo partita, Maradona intanto preparava il suo solitario sbarco sul pianeta proibito dei migliori di ogni epoca. Che non avvenne nell’ultima partita del girone, vinta per 2-0 sulla Bulgaria (gol di Valdano e Burruchaga, sempre loro) e nemmeno nello scorbuto incrocio degli ottavi di finale con l’Uruguay, arrivato terzo nel girone E dopo un cappotto memorabile (1-6 con la Danimarca di Elkjaer e Laudrup) e un pareggio incolore con la Scozia (0-0). Pasculli segnò l’1-0, sfruttando un assist di Valdano. Nel secondo tempo Maradona saltò di slancio l’intera difesa avversaria, mise fuori tempo il portiere con un passaggio verso Pasculli, ma a porta vuota l’attaccante del Lecce non riuscì a depositare in rete.

Il momento è esattamente questo: 180 minuti di gioco suddivisi in due partite, quella dei quarti di finale con l’Inghilterra e quella di semifinale con il Belgio. Quattro gol segnati sui quattro realizzati dall’Argentina, un condensato delle caratteristiche di Maradona, compresa quella della malizia, ma anche di leadership e personalità. Se Maradona si è guadagnato il diritto di ambire al titolo di “più grande di sempre” è proprio perchè in quei 180 minuti fece cose al limite dell’immaginabile. Le aveva fatte prima, riuscì anche dopo in imprese senza precedenti, su tutti i due scudetti e la Coppa Uefa vinti con il Napoli. Parliamoci chiaro: primeggiare col Napoli non è esattamente come farlo indossando la maglietta del Barcellona, Real Madrid, Juventus o Milan.

Il 22 giugno all’Azteca di Città del Messico c’erano sugli spalti qualcosa come 110.000 spettatori, nella gara valida per i quarti di finale si incontravano Inghilterra e Argentina. Quattro anni prima - nel 1982 - queste due nazioni si erano scontrate in una guerra scoppiata per il possesso delle Isole Falkland, inglesi, occupate dall’esercito argentino. La Royal Navy in forze prese subito il largo verso l’America del Sud e tre mesi dopo i marines inglesi entravano a Port Stanley, chiudendo di fatto una rapida azione di riconquista delle isole. Fu una guerra aspra, che dimostrò in maniera netta la soverchiante organizzazione delle forze armate britanniche, ma che soprattutto piegò nel morale l’Argentina. Quel quarto di finale era una sorta di rivincita nazionale e Maradona se la gustò per intero. Si prese il primo tempo per le prove generali di serpentine e dribbling, poi nell’arco di soli 4 minuti, a cavallo tra il 51’ e il 54’, fece tutto e il contrario di tutto. Segnò con la mano, anticipando con un colpo di pugno l’uscita alta del portiere Shilton. Giusto il tempo di esultare, di rimettere il pallone al centro del campo, e sfornò il gol più bello di tutti i tempi. Arrivato al limite dell’area piccola, dopo aver saltato cinque avversari partendo dalla sua metà campo, trovò anche il tempo di mettere fuori causa il portiere con un fulmineo e leggero tocco di sinistro, per poi depositare a porta vuota: una dimostrazione di superiorità tecnica disarmante. Sotto per 2-0 l’Inghilterra dimezzò lo svantaggio a 10 minuti dalla fine grazie a Lineaker, ma in semifinale ci andò l’Argentina. L’avversario adesso era il Belgio, uscito indenne dai supplementari con l’Urss, battuta 4-3 negli ottavi, e dalla lotteria dei rigori con la Spagna ai quarti.

25 giugno 1986, sempre all’Azteca di Città del Messico, sempre davanti a 110.000 spettatori sugli spalti. Il primo tempo della semifinale tra Argentina e Belgio filò via abbastanza equilibrato, ma poi come in una sorta di remake di quello accaduto 3 giorni prima con l’Inghilterra, nel secondo tempo Maradona si prese il palcoscenico. Al 51’ tagliò in profondità, anticipò due difensori e scavalcò il portiere Pfaf con un pallonetto di esterno (sinistro, ovviamente). Una decina di minuti dopo produsse un altro gol capolavoro, meno celebrato rispetto a quello di tre giorni prima segnato all’Inghilterra, ma altrettanto bello: ricevette il pallone sulla trequarti in posizione centrale, si incuneò in area verso sinistra disorientando cinque difensori e scagliò il pallone in rete, quasi perdendo l’equilibrio. Può bastare? No. Maradona sfiorò la tripletta, di nuovo a modo suo, partendo ai 40 metri, saltando difensori a ripetizione e arrivando fino al limite dell’area piccola per calciare in diagonale di sinistro. Solo che questa volta il pallone rotolò largo di una manciata di centimetri rispetto al secondo palo.

Mancava solo la consacrazione definitiva, cosa che avvenne il 29 giugno 1986, all’Azteca, davanti ad pubblico indicato in 114.000 unità. In finale l’Argentina si ritrovò davanti ad una Germania che, esattamente come quattro anni prima al Bernabeu, sembrava destinata al ruolo di comparsa. Ma quella Germania era una squadra forte e organizzata. Il destino di quella finale, però, era già stato scritto, e lo dimostrò l’andamento di una partita per certi versi assurda. L’Argentina gestì la gara con disinvoltura per oltre un’ora e questa volta non servirono le prodezze di Maradona per andare sul 2-0 grazie alle reti del difensore Brown (agevolato da una clamorosa uscita a vuoto dell’estremo difensore tedesco Schumacher) e di Valdano in contropiede. I cambi effettuati da Beckenbauer però diedero nuova linfa alla Germania. Al 74’ Voller propiziò la rete di Rumenigge, all’80’ l’attaccante del Werder Brema mise dentro di testa la rete del 2-2. Clamoroso. Come clamorosa fu l’ingenuità dei tedeschi nemmeno tre minuti dopo. Salirono in quattro per cercare di rubare il pallone a Maradona proprio nel cerchio di centrocampo, ma lasciarono una prateria a Burruchaga e Valdano. Il numero 10 non chiedeva altro: controllo e passaggio in profondità, verso Burruchaga lanciato tutto solo verso il gol del 3-2. Partita finita, Argentina campione del mondo.

Il dibattito, per certi versi capzioso e per nulla appassionate, sul più grande calciatore di tutti i tempi, se Pelé, Maradona, Di Stefano o Cruyff, probabilmente proseguirà a lungo. E poi, come si possono imbastire certi paragoni? Pensiamo soltanto all’aspetto fisico: Maradona era il meno dotato, non aveva l’esplosività muscolare di Pelé o la capacità di corsa di Cruyff. Compensava però con delle doti tecniche innate, quelle sì, senza eguali. In quei trenta giorni al Mondiale messicano giocò un calcio di un livello nettamente superiore, e dopo averlo visto decidere con i suoi colpi di genio la competizione più difficile e importante in assoluto, qualche dubbio sul fatto che possa essere davvero il più grande di sempre allora inizia a sorgere. Anche perchè riuscì, esattamente un anno dopo, a coronare un’impresa ancora più impossibile, ovvero quella di vincere lo scudetto con il Napoli. Una squadra presa per mano e traghettata dai bassifondi della classifica a essere la più forte d’Italia. Ecco, questo si che potrebbe essere un’interessante questione da discutere: le altre leggende del calcio citate prima, alle quali si possono aggiungere a piacimento anche Altafini, Rivera, Van Basten, Messi, Baggio, Ronaldo (Cristiano e non), sarebbero riuscite al pari di Maradona a raggiungere risultati così straordinari giocando in squadre così poco competitive? … Forse no.

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