Dal cuore della vecchia Europa allo spazio. La conquista della Luna

Breslavia, Repubblica di Weimar, 1927. Inizia qui la nostra storia, ovvero quando un gruppo di giovani scienziati diede vita alla “Verenh far Raumschaffart”, la società di viaggi nello spazio. Visionari, di sicuro. Pazzi, non tanto. L’ideatore della VfR si chiamava Hermann Oberth. Nato a Sibiu, che oggi sarebbe Romania, ma nel 1894 apparteneva all’Impero d’Austria e Ungheria, è universalmente riconosciuto come uno dei padri della missilistica. Accanto a lui andava crescendo un giovane brillante ingegnere, nato nel 1912 in Polonia (o in Prussia, o scegliete voi dove, a seconda del momento storico), a Wirsitz, duecento e passa chilometri più a nord di Breslavia. Da una delle zone più tormentate d’Europa, alla Nasa, fino allo sbarco dell’uomo sulla Luna nell’estate del 1969. No, il viaggio non è breve, e di lati oscuri nella personalità di Werner Von Braun, componente fondamentale del Programma Apollo, non mancano. Ad esempio come quando disponeva dei prigionieri, sostanzialmente “schiavi”, nella maggior parte ebrei, alcuni anche italiani, costretti al lavori forzati per costruire le V2. In quel lager della Turingia pare che Von Braun non prestasse chissà quale attenzione al destino di quegli uomini, costretti a faticare in condizioni disumane. O che - a dispetto da quanto si è soliti pensare - egli non fosse l’unica e sola mente geniale della missilistica tedesca, e che senza i suoi maestri e i suoi collaboratori non avrebbe raggiunto risultati così avveniristici, nel 1944, sotto le bombe degli Alleati.

Negli anni ’20 la Repubblica di Weimar era sostanzialmente considerata come una sorta di “stato canaglia” ante litteram. E non potendo disporre di un esercito, se non di entità estremamente ridotta, aggirava il diktat della “pace punitiva” collaborando sotto traccia con l’altro “stato canaglia” europeo dell’epoca, cioè l’Urss. I trattati di Versailles avevano però un altro “bug”, e proprio qui si inserì Oberth e il suo manipolo di pionieri. Quel “buco” era rappresentato proprio dalla missilistica, perché nessuno nel 1919 immaginava che potesse davvero rappresentare un armamento. Nel 1933 l’aria in Germania cambiò radicalmente. La VfR fece un bel balzo in avanti e passò dal costruire - tra le altre cose - razzi dimostrativi per i film di Fritz Lang a lavorare per la Wehrmacht, cioè i militari. I risultati però scarseggiavano, del resto le problematiche da affrontare non erano affatto poche: propulsione, sistemi di guida, peso, velocità. La VfR sì fermo lì, la carriera di Von Braun invece no. La guerra incombeva e nel 1939, sotto l’ingombrante ombrello nazista, iniziò l’epopea di Peenemunde, la base sul Baltico dove i tedeschi costruirono le loro armi più terribili. Ma tardive, perché non riuscirono a ribaltare le sorti della guerra. Dopo quattro anni di lavoro Von Braun imbasti il primo vero e proprio missile della storia, A4 si chiamava. Alto 14 metri, pesante 12 tonnellate, capace di raggiungere una velocità di 5000 chilometri all’ora, era anche estremamente preciso sul bersaglio. I tedeschi arrivarono al traguardo con ampio vantaggio sulle due super-potenze in gestazione, Usa e Urss. Il tempo di armarlo e l’A4 divenne la V2, l’arma di dissuasione numero 2. Migliaia di V2 colpirono l’Inghilterra negli ultimi mesi di guerra e mentre Von Braun già pensava al suo prossimo progetto, un missile multistadio capace di raggiungere addirittura la costa est degli Stati Uniti, la Germania nazista si arrese.


 

Il patrimonio tecnologico tedesco faceva gola e i servizi segreti statunitensi volevano arrivare prima dei russi sul “pezzo pregiato”. L’operazione “Paperclic” venne ideata proprio per questo, strappare alla concorrenza sovietica quanti più scienziati nazisti (o, a quel punto, ex nazisti) possibile. Von Braun si consegnò agli americani, assieme al fratello e decine di suoi collaboratori. Intanto le ultime V2 esistenti vennero impacchettate e spedite negli Usa. E qui inizia tutta un’altra storia.
L’altra storia è una gara, una sorta di competizione sportiva, se non fosse che la posta in palio era quella di far saltare in aria tutto il pianeta. Al confronto muscolare della “guerra fredda” tra Usa e Urss possiamo dare tante definizioni, quella di “competizione sportiva” certamente è la più benevola. Però, pensiamoci bene. La corsa alla conquista dello spazio - nella sua accezione più “ideale” - non poteva essere considerata come qualcosa di pericoloso per le sorti dell’umanità. Al contrario, invece. Rappresentava, e tuttora rappresenta, forse il punto più alto raggiunto dal progresso scientifico civile: costruire un mezzo capace di vincere la gravità terrestre e accarezzare l’orbita più estrema del nostro pianeta, e poi spingersi oltre, fino ad atterrare su un altro corpo celeste, in questo caso la Luna, adesso anche su Marte.
I primi anni americani di Von Braun non furono particolarmente stimolanti. Lo sviluppo della missilistica targata Usa venne affidato - con poco successo - alla Marina, la Us Navy. E l’ingegnere tedesco fu inizialmente costretto al ruolo di comprimario. Dall’altra parte della cortina di ferro invece non stavano certo a tergiversare. Sotto la guida del “glavny konstruktor”, il progettista capo del programma spaziale sovietico, l’ex carcerato (da Stalin) Sergej Korolev, i russi stavano raggiungendo risultati straordinari. Uscito dalla prigione minato nel fisico, Korolev non ebbe comunque esitazione nel mettersi al lavoro per la sua nazione e per inseguire il suo sogno, che non era affatto diverso rispetto a quello di Von Braun: Mandare l’uomo sulla Luna. Nel 1957 l’Urss varò il primo Icbm, il primo missile balistico intercontinentale, capace di trasportare una testata esplosiva - meglio se atomica (pensavano alcuni) - a 5000 chilometri e oltre di distanza, volando alla velocità di 9 chilometri al secondo. La V2 era diventata grande e molto più pericolosa. Al cosmodromo di Baikonur, nel bel mezzo della steppa del Kazakistan, le idee del progettista capo erano altre e esulavano dalle mere questioni strategiche e militari. Il razzo multistadio, denominato R7, che avrebbe potuto portare terrore e distruzione in ogni parte del globo, era invece pronto per un’altra e più importante missione. Il 4 ottobre del 1957 Korolev e il suo gruppo di scienziati spedirono nello spazio il primo satellite artificiale, lo Sputnik. Un oggetto pesante all’incirca 30 chili, conteneva una radio a batterie che funzionò per un paio di giorni e un termometro. Poca roba, ma cosa importava: nella corsa allo spazio l’Urss stava decisamente staccando gli Usa, che erano ancora fermi sulla linea di partenza. Il presidente Eisenhower bollò lo Sputnik 1 come un semplice “pezzo di ferro”. Ma poi vennero lo Sputnik 2, con la cagnetta Laika a bordo, e il 12 aprile del 1961 la Vostok 1, a bordo della quale c’era il primo uomo ad essere lanciato nello spazio, ovvero Juri Gagarin.
No, così non si poteva andare avanti. L’opinione pubblica e gran parte della classe politica americana erano in subbuglio, il netto divario missilistico nei confronti dei sovietici era evidente e svilente. Serviva un cambio di strategia. Poche settimane dopo lo “schiaffo” incassato per mano di Korolev e dell’inconsapevole (visto che non toccò un comando che fosse uno, considerato che la Vostok 1 era guidata da terra) cosmonauta Gagarin, il neo-presidente John Fitzgerald Kennedy mise le cose in chiaro: gli Usa avevano l’intenzione di andare sulla Luna. Per primi. Non erano solo parole, ovviamente. Per questo ambizioso progetto venne stanziata la - fantascientifica - cifra di 25 miliardi di dollari, che sarebbe stata amministrata dalla Nasa (l’agenzia civile spaziale americana) e dal Marshall Space Flight Center, il centro di ricerca e sviluppo, creato per l’occasione. Al vertice del Msfc, il traino di tutto il progetto spaziale americano, veniva posto Werner Von Braun.
Altro che V2. L’idea che venne all’ingegnere John Houbolt era chiara e allo stesso tempo visionaria: porre sulla punta di un enorme razzo multistadio una navetta abitabile, spingerla fuori dalla gravità terrestre, metterla sulla rotta verso la Luna, dotarla di un mezzo capace di procedere all’allunaggio, far atterrare gli astronauti, esplorare la superficie del satellite, ripartire e riagganciare il modulo principale dotato dell’energia sufficiente per tornare sulla terra. C’era però un aspetto fondamentale da far quadrare, quello del razzo vettore, ne sarebbe servito uno di potenza, portata e precisione senza pari. Ci avrebbe pensato l’ex pupillo della Wehrmacht.
I russi restarono in testa nella corsa allo spazio ancora per qualche anno. Nel 1964 la Voskhod 1 lanciò tre uomini fuori dalla gravità terrestre; la seconda “alba”, la Voskhod 2, era progettata per consentire ad un astronauta di uscire dalla navetta e passeggiare nello spazio. I sovietici si accaparrarono anche questo primato, nel ’66 però persero il loro leader, quel Korolev che passo dopo passo si avvicinava al suo sogno di conquistare la Luna e intanto era già proiettato oltre, e chiedeva fondi per l’esplorazione di Marte e poi anche di Venere. La Nasa però recuperò terreno in fretta. Gli ottimi risultati del Programma Gemini chiusero definitivamente il gap tecnologico rispetto alla concorrenza. Nel 1666 gli astronauti Lovell e Aldrin riuscirono con successo nelle manovre di avvicinamento e di aggancio di due veicoli nello spazio. A quel punto venne lanciato il Programma Apollo. Nel ’68 gli Usa si spinsero fino all’orbitra lunare, diedero un’occhiata, mancava quindi solo l’ultimo tassello. Il contributo fondamentale venne ancora una volta da Von Braun e dal suo Saturn V. Un gigantesco razzo vettore a tre stadi, altro oltre 100 metri, sulla punta del quale stazionavano il modulo lunare e la navicella Apollo 11, con a bordo gli astronauti Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Micheal Collins. Il resto è storia arcinota, il 20 luglio del 1969 il Lem atterrava sulla Luna. 
E pensare che tutto era iniziato in una elegante cittadina della monotona pianura polacca, sulle sponde del fiume Oder.

Commenti

Post più popolari